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Napoleone tra guerra e rivoluzione
By Dr. Jacques R. Pauwels
Global Research, May 14, 2021
marxismo-oggi.it
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La Rivoluzione francese non fu un semplice “evento” storico, ma un processo lungo e complesso all’interno del quale si possono identificare diverse fasi. Alcune di queste, comprese le importanti fasi iniziale e finale che indicheremo in seguito, furono di natura più contro-rivoluzionaria che rivoluzionaria. E, per quanto riguarda gli stadi veramente rivoluzionari, è possibile individuarne due.

Il primo fu “il 1789”, la rivoluzione moderata. Questa pose termine all’Ancien Régime, caratterizzato dall’assolutismo reale e dal feudalesimo o, detto in altro modo, al monopolio del potere da parte del monarca e ai privilegi della nobiltà e della Chiesa. Tra le realizzazioni importanti de “il 1789” sono da annoverare la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, l’uguaglianza di tutti i francesi di fronte alla legge, la separazione tra Stato e Chiesa, un sistema parlamentare basato su un diritto di voto seppur ristretto e la creazione di uno Stato francese “moderno”, centralizzato e “indivisibile”. Queste realizzazioni che, complessivamente, costituirono un enorme “passo in avanti” nella storia della Francia, vennero iscritte in una costituzione che, non senza un qualche ritardo, sarà promulgata nel 1791.

L’Ancien Régime, ossia la Francia prima del 1789, era associata alla monarchia assoluta e il sistema rivoluzionario del 1789 avrebbe potuto trovare una sua collocazione adeguata anche all’interno di una monarchia parlamentare e costituzionale. La cosa non fu possibile a causa della condotta di Luigi XVI e così nel 1792 nacque una nuova forma di stato, la repubblica. Il “1789” fu possibile grazie all’intervento dei sans-culottes di Parigi, ma il suo sbocco fu fondamentalmente opera di moderati, quasi esclusivamente membri della borghesia facoltosa. Furono questi ultimi che, sulle rovine dell’Ancien Régime già al servizio degli interessi della nobiltà e del clero, fonderanno uno stato che doveva essere invece al servizio dell’(alta) borghesia.

Sul piano politico, questi solidi borghesi, originari di tutta la Francia, troveranno subito una sede nel club dei Foglianti e in seguito in quello dei Girondini, il cui nome riflette le loro origini : erano membri della borghesia della regione di Bordeaux , la cui ricchezza proveniva essenzialmente, oltre che dal vino, dal commercio degli schiavi.

Il secondo stadio rivoluzionario fu “il 1793”, che vuol dire rivoluzione “popolare”, radicale, egualitaria, con i diritti sociali come il diritto al lavoro e riforme socio-economiche relativamente spinte – rispecchiate in una costituzione, quella dell’anno Io o1793, che tuttavia non entrerà mai in vigore. In questa fase, personificata da Massimiliano Robespierre, la Rivoluzione si orientò in senso sociale e si apprestò a regolare l’economia del paese – e perciò a limitare in una certa misura la libertà individuale a favore del “bene comune”, vale a dire a profitto della “comunità”. Dato che, contemporaneamente, il diritto di proprietà venne preservato, il “1793” si può qualificare come “social-democratico” piuttosto che “socialista”. Il “1793” fu opera di Robespierre, del gruppo dei Montagna e di altri Giacobini, ossia di rivoluzionari radicali, essenzialmente piccola-borghesia i cui principi, al fondo, erano altrettanto “liberali” di quelli dell’alta borghesia. Le loro misure cercavano di soddisfare anche i bisogni elementari della plebe parigina, soprattutto artigiani e altri lavoratori sans-culottes, punta di lancia della rivoluzione. I sans-culottes erano persone comuni che portavano calzoni lunghi al posto di mutandoni (culottes) cui venivano aggiunte delle calze impreziosite di sete, modo tipico di vestire degli aristocratici e dei ricchi borghesi. I sanculotti furono in effetti gli alleati indispensabili ai Giacobini nella loro lotta non solo contro i Girondini, i rivoluzionari moderati, ma anche e soprattutto contro la contro-rivoluzione.

Sotto molteplici aspetti, la fase radicale della rivoluzione fu un fenomeno parigino, una rivoluzione fatta da e per Parigi. L’opposizione veniva essenzialmente da fuori della capitale, ovvero dalla grande borghesia residente nelle città di provincia, rappresentata e diretta dai Girondini e sostenuta dai contadini delle campagne. Con il “1793”, la rivoluzione diventa una sorta di conflitto tra Parigi e il resto della Francia.

La contro-rivoluzione si poneva invece contro sia “il 1789” che ”il 1793” e non voleva niente di meno che un ritorno all’Ancien Régime. I suoi campioni – emigrati della nobiltà, preti recalcitranti e contadini in rivolta in Vandea e in altre province – si battevano per il re e per la Chiesa. La borghesia facoltosa, concentrata soprattutto nelle grandi città francesi di provincia, dimostrava ostilità al “1793”, ma favore al “1789”. La borghesia era contro “il 1793” perchè, al contrario dei sanculotti parigini, non aveva nulla da guadagnare e tutto da perdere da uno sviluppo rivoluzionario radicale volto nella direzione indicata dai Montagnardi e dalla loro costituzione del 1793 con il suo egualitarismo e statalismo. La borghesia rimaneva comunque ugualmente contraria ad un ritorno dell’Ancien Régime nel quale lo Stato sarebbe di nuovo stato messo al servizio di nobiltà e clero. “Il 1789” voleva invece dire Stato francese per la borghesia e “il 1789” era in effetti stata la rivoluzione della borghesia per la borghesia.

Un “ritorno all’indietro” verso la rivoluzione borghese e moderata del 1789 – ma con una repubblica al posto di una monarchia costituzionale – ecco l’obiettivo e, sotto molti aspetti, il risultato della “reazione del Termidoro” del 1794, il colpo di stato che pone fine al regime – e alla vita – di Robespierre. Il Termidoro produsse la costituzione dell’anno IIIo che, come ha scritto lo storico Charles Morazé, “garantì la proprietà privata e le idee liberali, [ma] soppresse tutto quello che andava oltre la rivoluzione borghese, nella direzione del socialismo”. L’aggiornamento termidoriano del “1789” produsse di conseguenza uno stato descritto come la “repubblica borghese” o la “repubblica dei proprietari”. Nacque così anche il “Direttorio”, un regime autoritario dissimulato da una mano sottile di vernice democratica sotto forma di assemblee legislative. Il Direttorio, tuttavia, trovò estremamente difficile sopravvivere nel destreggiarsi tra una Cariddi realista di destra, che mirava a un ritorno all’Ancien Régime, e una Scilla di Giacobini e sanculotti di sinistra che militavano per una nuova radicalizzazione in senso rivoluzionario. Ci furono delle insurrezioni, sia dei realisti che dei Giacobini, e una di queste venne soffocata nel sangue da un generale ambizioso e popolare, Napoleone Bonaparte.

Tutti questi problemi vennero risolti dal colpo di stato del “18 Brumaio”, vale a dire con l’istituzione di una dittatura militare affidata a Bonaparte. Si può dire che il “18 Brumaio” la borghesia facoltosa di Francia trasferì a Bonaparte il potere politico che possedeva allo scopo di non perderlo nè sul fianco dei realisti né su quello dei Giacobini.

Ci si aspettava che il Corso avrebbe messo lo Stato francese, d’ora in avanti una dittatura, al servizio della (alta) borghesia e prendesse le misure che ci si attendeva. Il primo compito fu l’eliminazione della duplice minaccia che tormentava i suoi padrini dell’alta borghesia. Il pericolo realista e pertanto contro-rivoluzionario poteva essere essere tenuto a bada con l’aiuto del “bastone” della repressione, ma anche soprattutto con la “carota” delle concessioni, dei compromessi e della riconciliazione. Napoleone permise agli aristocratici emigrati di tornare in Francia, di recuperare le loro proprietà e di approfittare dei privilegi che aveva concesso non solo ai grandi borghesi, ma ai “benestanti” in generale. Inoltre trovò un modus vivendi con la Chiesa cattolica firmando un concordato con il Papa.

Allo scopo di esorcizzare la minaccia (neo-)giacobina, ovvero il rischio di una rinnovata radicalizzazione della rivoluzione, Napoleone si servì di uno strumento immaginato dai Girondini e diligentemente utilizzato dal Direttorio, ossia la guerra. In effetti, se pensiamo alla dittatura di Bonaparte non ci tornano alla mente, contrariamente a quanto aveva contrassegnato gli anni dal 1789 al 1794, eventi rivoluzionari o contro-rivoluzionari accaduti nella capitale francese, quanto piuttosto un’interminabile serie di guerre condotte lontano da Parigi e, in molti casi, al di fuori dalle frontiere francesi. Non fu per caso. Queste guerre dette “rivoluzionarie” e “napoleoniche” erano estremamente funzionali all’obiettivo primario dei partigiani della rivoluzione moderata, compresi i bonapartisti e i loro sostenitori : conservare le acquisizione del “1789” ed impedire sia un ritorno all’Ancien Régime che a una riedizione del “1793”.

Con il loro Terrore, Robespierre e i Montagnardi avevano voluto non solo proteggere la rivoluzione, ma anche approfondirla, radicalizzarla, intensificarla, cosa che significava contemporaneamente “internalizzarla” nel seno della stessa Francia e, innanzitutto, nel cuore della sua capitale, Parigi. Non era accidentale che le esecuzioni mediante ghigliottina, strettamente associate alla rivoluzione radicale, avessero luogo nel centro della piazza della città situata nel centro del paese. Per concentrare le proprie energie e quelle dei sanculotti e di tutti i veri rivoluzionari su questa “internalizzazione” della rivoluzione, Robespierre e i suoi amici Giacobini – al contrario dei Girondini e di Napoleone – erano contrari per principio alle guerre oltre confine in quanto le ritenevano un dispendio di energie rivoluzionarie e un pericolo per la rivoluzione. Di contro, la serie interminabile di conflitti che vennero scatenati in seguito, inizialmente sotto gli auspici del Direttorio termidoriano e poi sotto Bonaparte, rimandavano ad una “esternalizzazione” della rivoluzione, ad una esportazione della rivoluzione borghese del 1789 che serviva contemporaneamente a bloccare la sua “internalizzazione” ovvero la “radicalizzazione” della rivoluzione del 1793.

La guerra internazionale, il conflitto con lo straniero, serviva a liquidare la rivoluzione nazionale in due modi. In primo luogo, la guerra fece sparire i rivoluzionari più appassionati dalla patria della rivoluzione, Parigi. Dapprima volontariamente, innumerevoli giovani sanculotti scomparvero dalla capitale Parigi per andare a battersi all’estero e, in troppi casi, senza farvi più ritorno. In questo modo, per le azioni rivoluzionarie collettive, come la presa della Bastiglia, non restavano a Parigi, oltre alle donne, che un pugno d’uomini, troppo pochi per poter ripetere i successi della massa dei sans-culottes del 1789, come dimostreranno i fallimenti delle insurrezioni giacobine che avevano tormentato il Direttorio. Inoltre, sotto Bonaparte, l’introduzione del servizio militare obbligatorio rese permanente questa situazione. “Fu lui [Napoleone]”, scrive lo storico Henri Guillemin, “che inviò i giovani plebei potenzialmente pericolosi lontano da Parigi e li mandò persino fino a Mosca – con gran sollievo dei benestanti.”

In secondo luogo, la notizia delle grandi vittorie suscita nella massa dei sanculotti, anche tra i suoi membri rimasti in patria, un orgoglio patriottico che va a soppiantare l’entusiasmo rivoluzionario. Con qualche aiuto da parte del dio della guerra, Marte, l’energia rivoluzionaria della sanculotteria e del popolo francese potè venire convogliata su percorsi meno radicali, dal punto di vista rivoluzionario. Abbiamo qui a che fare con quello che in inglese viene denominato un displacement process, un processo di transfert : il popolo francese, compresi i sanculotti parigini, perse progressivamente il suo entusiasmo per la rivoluzione e per tutte le idee di libertà, uguaglianza e solidarietà tra i francesi e con i popoli vicini e si rivolse sempre più verso l’adorazione del vitello d’oro dello chauvinismo nazionale, dell’espansione territoriale nella direzione di frontiere considerate “naturali” come il Reno, e della gloria internazione della “grande nazione” e – dopo il 18 brumaio – del suo capo, Bonaparte.

Questo ci porta anche a capire la reazione ambivalente dei popoli europei di fronte alle guerre ed alle conquiste della Francia in quelle circostanze. Mentre certuni – le élite dell’Ancien Régime, ad esempio, e i contadini – respingevano nella sua totalità la Rivoluzione francese, e altri – innanzitutto i Giacobini locali come i “patrioti” olandesi – l’applaudivano abbastanza incondizionatamente, ma molti e indubbiamente la maggior parte passeranno dalla Cariddi dell’ammirazione per le idee e le realizzazioni della Rivoluzione francese alla Scilla della ripulsa nei confronti del militarismo, dello chauvinismo senza freni e allo spietato imperialismo della Francia dopo Termidoro, durante l’epoca del Direttorio e sotto Napoleone.

Numerosi non francesi lotteranno tra ammirazione e repulsione simultanee nei confronti della Rivoluzione francese. Per altri, l’entusiasmo iniziale lasciò presto o tardi il passo alla disillusione. Gli inglesi, ad esempio, accolsero con favore il “1789”, perché interpretarono non senza ragione la Rivoluzione francese nel suo stadio moderato come l’importazione in Francia di una sorta di monarchia costituzionale e parlamentare che loro stessi avevano già introdotto circa cent’anni prima all’epoca della loro famosa Glorious Revolution. Il poeta William Wordsworth tradusse questo entusiasmo dell’inizio in questi versi famosi :

Bliss was it in that dawn to be alive,

But to be young was very heaven !

Che benedizione essere vivi in quest’alba,

Ma essere giovani allora fu il vero paradiso !

Dopo il “1793”, la rivoluzione radicale e il Terrore, tuttavia, la maggior parte, o almeno un buon numero di inglesi prese a considerare con esecrazione gli eventi che si stavano svolgendo dall’altra parte del Canale (Channel). Il loro porta-parola fu Edmund Burke, il cui libro Reflections on the Revolution in France – già pubblicato nel novembre del 1790 – divenne una vera Bibbia per i contro-rivoluzionari, non solo in Inghilterra, ma in tutto il mondo. Un secolo e mezzo dopo, George Orwell avrebbe potuto scrivere che “per l’inglese medio, la Rivoluzione francese non aveva altro significato che una piramide di teste mozzate”. Avrebbe potuto dire la stessa cosa della quasi totalità degli altri non-francesi sia della sua epoca che di oggi.

Fu per mettere fine alla Rivoluzione nella Francia stessa, che Napoleone strappò la rivoluzione – quella del 1789 – dalla sua culla, Parigi e l’esportò verso il resto d’Europa. Fu per porre ostacoli e impedire alla potente corrente della rivoluzione di scavare ancora più in profondità il suo alveo – a Parigi e nel resto della Francia – che dapprima i Girondini, poi il Direttorio, ma soprattutto Bonaparte, fecero straripare le turbolente acque rivoluzionarie fuori dagli argini delle frontiere francesi per inondare tutta l’Europa.

Per togliere la rivoluzione dalla sua culla parigina, per porre un termine a quello che fu per molti aspetti un progetto radicale dei Giacobini, dei sanculotti piccolo-borghesi di Parigi e, di contro, per consolidare la rivoluzione moderata cara alla borghesia, Napoleone Bonaparte era stato sapientemente scelto sul piano simbolico. Era nativo di Ajaccio, la città di provincia più lontana dalla capitale. Inoltre, Napoleone era un “figlio della cerchia dei gentiluomini corsi”, in altre parole il rampollo di una famiglia di cui si poteva ugualmente dire che apparteneva all’alta borghesia con pretese nobiliari o anche alla piccola nobiltà ma con lo stile di vita dell’alta borghesia. In ogni caso, a ben vedere, i Bonaparte facevano parte dell’alta borghesia, la classe che, in tutta la Francia, grazie al “1789”, aveva raggiunto i suoi obiettivi e cercava di consolidarli con una dittatura militare di fronte alle minacce provenienti sia dalla sinistra che dalla destra. Napoleone incarnava la (alta) borghesia di provincia che, sul modello dei Girondini, privilegiava una rivoluzione moderata, cristallizzata in uno Stato, più o meno democratico se possibile ma rigorosamente autoritario se necessario, che facilitasse l’allargamento del potere e delle ricchezze di questa classe. Le esperienze del Direttorio avevano dimostrato le deficienze, da questo punto di vista, di una repubblica fornita di istituzioni relativamente democratiche e per questa ragione la borghesia optò alla fine per una dittatura.

Questa dittatura militare, che prese il posto della “repubblica borghese” post-Termidoro, nacque a Saint-Cloud, un sobborgo parigino, il “18 brumaio” dell’anno VIII, ossia il 9 novembre 1799. È notevole che questo passaggio politico decisivo nel processo per bloccare la rivoluzione abbia contemporaneamente segnato un passaggio geografico in cui ci si allontanava da Parigi, dal crogiolo della rivoluzione, dalla tana del leone dei Giacobini e dei sanculotti fin troppo rivoluzionari, in direzione della campagna ben meno radicale o anche più o meno contro-rivoluzionaria. Ed ecco un altro piccolo dettaglio ironico : Saint-Cloud si trova sulla strada che va da Parigi a Versailles, la residenza dei re assoluti di prima della Rivoluzione. Il fatto che il colpo di stato che instaurava un sistema autoritario avvenne in quel luogo fu il riflesso topografico del fatto storico che dopo l’esperienza democratica della rivoluzione, la Francia imbocca di nuovo la via verso un sistema politico assolutista come quello di cui Versailles era stato il “sole”. Questa volta, tuttavia, la destinazione era un sistema assolutista sotto la direzione di un Bonaparte e non più di un Borbone e, ancora più importante : un sistema assolutista al servizio della borghesia e non più della nobiltà.

The coup d’état of Saint-Cloud on a British caricature by James Gillray (Public Domain)

Nei confronti della rivoluzione, la dittatura di Bonaparte è ambivalente. Da un lato, con il suo avvento la rivoluzione termina, è liquidata, nel senso che si decreta la fine non solo del genere di esperimenti ugualitari del “1793”, ma anche della facciata democratica repubblicana del “1789”. D’altro canto, le realizzazioni essenziali del “1789” vennero preservate ed anche consolidate. Alla domanda se Napoleone sia stato o meno un rivoluzionario si può rispondere in questo modo. Era per la rivoluzione nello stesso senso in cui era contro la contro-rivoluzione realista e siccome due negazioni si elidono a vicenda, chi è ostile alla contro-rivoluzione è automaticamente un rivoluzionario. Ma si può anche dire era allo stesso tempo per e contro la rivoluzione : era per la rivoluzione borghese moderata del 1789, quella dei Foglianti-Girondini-Termidoriani, ma contro la rivoluzione radicale del 1793, quella dei Giacobini e dei sanculotti di Parigi.

Nel suo libro La Révolution, une exception française ?, la storica Annie Jourdan cita quanto scrive nel 1815 un commentatore dell’epoca, un tedesco o più precisamente della Prussia, che aveva già allora compreso come Bonaparte “non era mai stato altro che la personificazione di una delle diverse fasi della rivoluzione”. Questa fase era quella della rivoluzione borghese, “il 1789”, che Napoleone consolidò in Francia e poi esporterà nel resto dell’Europa.

Napoleone eliminò pertanto i pericoli realisti e giacobini, ma rese un ulteriore grande servizio alla borghesia incidendo nel marmo della legislazione il diritto alla proprietà privata, pietra angolare dell’ideologia liberale cara al cuore della borghesia. Questo diritto era già stato sancito nel 1791 nella costituzione della rivoluzione nella sua fase borghese e moderata. Aggiungendo gli atti alle parole, nel 1802 il Corso reintrodusse nelle colonie francesi la schiavitù. All’epoca, gli schiavi erano ancora considerati come una forma legittima di proprietà, tuttavia la Francia era stata il primo paese ad abolire la schiavitù, allora, nella fase radicale della rivoluzione con il favore di Robespierre e i timori dei suoi avversari, i Girondini, precursori di Bonaparte in quanto campioni della causa borghese e del pensiero liberale di questa classe.

Lo storico Georges Dupeux ha scritto che “la borghesia ha trovato in Napoleone allo stesso tempo un protettore e un padrone.” Il Corso fu indubbiamente un protettore, anche un grande campione, dell’alta borghesia, ma non ne fu mai il padrone. In realtà, egli era al servizio dei grandi uomini d’affari e soprattutto dei banchieri dell’alta borghesia del paese, gli stessi che avevano il controllo della Francia ai tempi del Direttorio, la “repubblica dei proprietari”, e che gli avevano affidato la regia del paese. Sul piano finanziario, non solo lui ma tutto lo Stato francese si ritroveranno alle dipendenze di una istituzione privata che era proprietà – e lo è tuttora – dell’élite più facoltosa del paese, anche se la cosa era stata in qualche modo edulcorata con l’apposizione di un’etichetta – Banca di Francia – che dava l’impressione si trattasse di un’istituzione dello Stato. Al prezzo di alti interessi, questi banchieri mettevano a disposizione di Napoleone il denaro che gli era necessario per dirigere la Francia, armarla, condurre la guerra – e fargli interpretare, in gran pompa, il ruolo dell’Imperatore. Alla fine, Napoleone non fu nient’altro che la figura di facciata di un regime, ed anche di una dittatura, dell’alta borghesia, un regime vero ma ben camuffato in una magnifica coreografia “romana”, dapprima consolare, in seguito imperiale.

Ed eccoci al ruolo delle interminabili guerre condotte da Napoleone, alle avventure militari che si pretende abbiano apportato tanta gloria alla “grande nazione” e al suo imperatore. Sappiamo già che questi conflitti servirono in primo luogo a liquidare la rivoluzione radicale in Francia. Permisero anche alla borghesia di guadagnare parecchio denaro. Con forniture e approvvigionamenti all’esercito di armi, uniformi, ecc., industriali e commercianti accumularono fortune. E le campagne vittoriose miravano a fonti di materie prime e a mercati di sbocco a disposizione dell’industria francese, il cui sviluppo poté accelerare considerevolmente. In questo modo, gli industriali francesi poterono giocare un ruolo sempre più importante in seno alla borghesia. In effetti, fu sotto Napoleone che, in Francia, il capitalismo industriale tipico del secolo XIX iniziò a soppiantare il capitalismo commerciale caratteristico di alcuni secoli prima. (Detto en passant : l’accumulazione di capitale commerciale era stata resa possibile soprattutto grazie al commercio di schiavi, mentre quella del capitale industriale ebbe molto a che fare con la serie quasi ininterrotta di guerre che vennero condotte, dapprima dal Direttorio e in seguito da Napoleone. In questo senso Balzac aveva ragione quando scriveva che “dietro ogni grande fortuna si nasconde un crimine”).

Le guerre napoleoniche stimolarono lo sviluppo del sistema industriale di produzione e suonarono i rintocchi funebri per l’antico sistema artigianale di fabbricazione, su piccola scala, di prodotti che gli artigiani realizzavano in modo tradizionale, non meccanizzato, nei loro laboratori. Tramite la guerra, la borghesia bonapartista non fa solo scomparire fisicamente gli sanculotti – sostanzialmente un gruppo eterogeneo di artigiani, negozianti e altri piccoli produttori – di Parigi ma li fa svanire anche dal paesaggio socio-economico. Durante la Rivoluzione, la massa dei sanculotti aveva potuto svolgere un ruolo di primo piano. Di fatto, con le guerre rivoluzionarie che liquideranno la rivoluzione, spariranno dalle scene della storia. In questo senso, la rivoluzione ha divorato i suoi figli.

Come gli antropofagi, la borghesia francese divorò il suo nemico di classe. Si trattava, tuttavia, di una vittoria di Pirro. Perché? L’avvenire economico ormai non apparteneva più ai laboratori e ai loro artigiani, “indipendenti” e pertanto piccolo-borghesi, che lavoravano manualmente, ma alle fabbriche e ai loro proprietari, gli industriali, nonché ai loro lavoratori, gli “operai di fabbrica” poveri e mal pagati. In questo “proletariato” tipico del XIXo secolo, la borghesia troverà un antagonista di classe ben più temibile che la congerie dei sanculotti caratteristica della fine del XVIIIo secolo. Questi proletari sogneranno una rivoluzione ancor più radicale di quella del “1793”, quella di Robespierre. Tutto questo, tuttavia, sarà un problema dei regimi borghesi che succederanno a quello di Napoleone il Grande, compreso quello di suo nipote, il terzo Napoleone, disdegnato come “Napoleone il Piccolo” da Victor Hugo.

Nella stessa Francia e in ben altri paesi, molti, compresi uomini politici e storici, disprezzano Robespierre e i Giacobini oltre che i sanculotti e li condannano per gli spargimenti di sangue che sono andati di pari passo con la loro rivoluzione “popolare” e radicale, con il “1793”. Queste stesse persone manifestano spesso allo stesso tempo una grande ammirazione per Napoleone, il salvatore della rivoluzione borghese, moderata del “1789”. Condannano la internalizzazione della Rivoluzione francese, asseritamente perchè è arrivata di pari passo con il Terrore che, in Francia e soprattutto a Parigi, ha prelevato un contributo di più di mille vittime e ne rigettano la colpa sull’ideologia giacobina e/o la sete di sangue ritenuta innata del “popolo”. Manifestamente non comprendono – o non vogliono comprendere – che l’esternalizzazione della rivoluzione promossa dai Termidoriani e da Napoleone, e associata alle guerre internazionali che dureranno per più di vent’anni, costò la vita a molti milioni di persone in tutta Europa, compreso un gran numero di francesi. In effetti, si può dire che queste guerre hanno costituito una forma di terrore molto più minacciosa e sanguinaria di quello che fu il potere del terrore dei Montagnardi.

Si stima che il terrore associato alla rivoluzione radicale, personificata da Robespierre, sia costato la vita a 50.000 persone, che rappresentavano lo 0,2 per cento della popolazione francese. “È molto o poco ?”, chiede lo storico Michel Vovelle che cita queste cifre in uno dei suoi libri. In confronto al numero di vittime delle guerre dovute all’espansione territoriale temporanea della “grande nazione” e per la gloria di Bonaparte, è poco. La sola battaglia di Waterloo, l’ultima della pretesa “gloriosa” carriera di Napoleone, produsse tra i 45.000 e i 50.000 tra morti e feriti. Se si aggiungono le “scaramucce” preliminari di Ligny e Quatre-Bras si arriva ad un totale di 80.000 o 90.000 vittime. Nella battaglia di Lipsia del 1813, ugualmente persa da Napoleone, ma oggi quasi totalmente dimenticata, si ebbero all’incirca 140.000 tra morti e feriti. Per quel che riguarda la catastrofica campagna di Russia, Napoleone vi lasciò centinaia di migliaia di morti e di mutilati, anche se non si parla mai di un “terrore” bonapartista e la France conta innumerevoli monumenti, vie e pubbliche piazze che dovrebbero rendere immortali i “grandi fatti eroici” del Corso.

Antoine Wiertz, “Une scène de l’enfer”, Wiertz Museum, Brussels

Nel sostituire alla rivoluzione permanente in Francia, e soprattutto a Parigi, con una guerra permanente attraverso tutta l’Europa, osservavano già Marx ed Engels, i Termidoriani e i loro successori, soprattutto Bonaparte, “perfezioneranno” il Terrore, in altri termini, faranno versare una quantità infinitamente maggiore di sangue che il “governo del terrore” di Robespierre. In ogni caso, è innegabile che l’esternalizzazione, tramite la guerra, della rivoluzione borghese, prelevò un tributo di lutti ben più pesante del tentativo da parte dei Giacobini d’intensificare e radicalizzare la rivoluzione con il terrore, di internalizzarla nella stessa Francia e, innanzitutto, a Parigi.

Molti, come parecchi uomini politici e i nostri media, ad esempio, oltre alla maggior parte degli storici continuano, tuttavia, a considerare la guerra come un’attività perfettamente legittima di uno Stato, fonte di gloria e di orgoglio per i vincitori e, in numerosi casi, anche per i perdenti, che in quell’occasione si comportano da “eroi”. Di contro, le migliaia, decine o centinaia di migliaia, se non milioni di vittime delle guerre – oggi, ad esempio, provocate dai bombardamenti aerei – non ricevono mai la stessa attenzione o simpatia delle vittime del “terrore”, molto meno numerose, colpite da una forma di violenza che non è (direttamente) sponsorizzata da uno Stato e che, per questo, viene considerata come illegittima.

Anche ora l’eterna “guerra contro il terrorismo”, una volta di più una forma di guerra permanente che, per quanto riguarda la grande potenza che-non-smette-mai-di-far-la-guerra, accende tra i “semplici cittadini” americani – i sanculotti americani, in qualche modo! – uno chauvinismo sconsiderato, fa sventolare di bandiere e allo stesso tempo riserva, ai più poveri tra di loro, tempo di lavoro sotto forma di una carriera nei marines. A profitto dell’industria americana, questa guerra garantisce nel frattempo le fonti di materie prime vitali, come il petrolio e, per i fabbricanti d’armi e ogni sorta d’altra impresa, soprattutto di quelle che hanno amici alla Casa Bianca, funziona come un corno dell’abbondanza dai vertiginosi profitti. Le similitudini con le guerre di Bonaparte sono a portata di mano. Come diceva il giornalista e romanziere Alphonse Karr : “Più si cambia e più è la stessa cosa.”.

Statue of Napoleon in Waterloo (Photo by J. Pauwels)

Con Bonaparte, la rivoluzione si conclude là dove doveva finire, almeno per quanto riguarda la borghesia francese. Bonaparte vuol dire il trionfo della borghesia francese. Non è pertanto un caso se, nelle città francesi, i “notabili”, vale a dire gli uomini d’affari, i banchieri, gli avvocati e altri rappresentanti dell’alta borghesia prediligano riunirsi in caffè o ristoranti che portano il nome “Napoleone”, come ha fatto osservare il grande sociologo Pierre Bourdieu in una delle sue opere. L’alta borghesia è sempre riconoscente a Napoleone per i grandi servizi che gli ha reso. Il maggiore fu sicuramente la liquidazione della rivoluzione radicale, del “1793”, che minacciava i guadagni considerevoli che la borghesia aveva acquisito a spese dell’aristocrazia e del clero mediante il “1789”, la rivoluzione moderata. (Di contro, l’odio della borghesia nei confronti di Robespierre, personificazione del “1793”, spiega la quasi totale assenza di monumenti, musei e nomi di strade che onorino la sua memoria.)

Napoleone è ammirato anche fuori dalla Francia, in Belgio, in Italia, in Germania, ecc., soprattutto dalla borghesia. La ragione è indubbiamente dovuta al fatto che in quasi tutti questi paesi, fino ad allora società feudali senza eccezioni, egli liquidò l’ancien régime e importò la rivoluzione moderata. Come in Fancia, questa rivoluzione portò considerevoli benefici per tutta la popolazione, ma privilegiò la borghesia. Questo spiega probabilmente perché a Waterloo, anche oggi, Napoleone è la star dello spettacolo turistico, creando persino l’impressione che sia stato lui il vincitore della battaglia !

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Traduzione di Silvio Calzavarini


Le Paris des sans-culottes: Guide du Paris révolutionnaire 1789-1799

By Dr. Jacques R. Pauwels

Tel un guide touristique, Jacques Pauwels emmène le lecteur dans un voyage à travers les années sans doute les plus orageuses de l’histoire de la capitale française. Dans un style alerte et avec le souci du détail, il sait attirer l’attention sur les événements décisifs qui bouleversèrent la France et le monde. Le déroulement historique de la Révolution devient ainsi une promenade à travers le Paris de l’époque comme celui d’aujourd’hui.

JACQUES PAUWELS, né à Gand en 1946, il réside au Canada depuis 1969. Il a enseigné dans différentes universités ontariennes, notamment aux universités de Toronto, de Waterloo et de Guelph. Outre La Grande Guerre des classes (première édition, Aden, 2014, deuxième édition mise à jour Delga 2016), on lui doit également Le Mythe de la bonne guerre (Aden, 2005) et Big Business avec Hitler (Aden, 2013), Les Mythes de l’histoire moderne (Investig’action, 2019).

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