75 anni fa, la battaglia di Stalingrado

Per vincere la guerra progettata da Hitler, la Germania, un paese altamente industrializzato, ma privo di colonie e pertanto vulnerabile data la sua limitata disponibilità di materie prime strategiche, doveva fare in fretta a sbaragliare il nemico, per arrivare prima che le sue riserve di petrolio si esaurissero. Queste scorte, che in gran parte consistevano di importazioni dagli Stati Uniti, erano state costituite negli anni precedenti lo scoppio delle ostilità e non potevano essere adeguatamente ricostituite con il carburante sintetico prodotto all’interno del paese (basato sul carbone) e/o dal petrolio fornito da stati amici o neutrali come la Romania e – dopo il patto Hitler-Stalin dell’agosto 1939 – dall’Unione Sovietica.

In questo contesto, i nazisti avevano sviluppato la strategia del Blitzkrieg, la « guerra-lampo » : attacchi sincronizzati da parte di un massiccio numero di carri armati, aeroplani e autocarri (per il trasporto della fanteria) seguiti dalla rapida penetrazione oltre le linee difensive nemiche dietro le quali era tipicamente schierato, secondo lo schema usato nel corso della Prima Guerra mondiale, il grosso delle forze avversarie, quindi il loro accerchiamento che non lasciava loro altra possibilità che la resa o la disfatta. Nel 1939 e nel 1940, questa strategia aveva funzionato perfettamente : i Blitzkrieg avevano prodotto dei Blitzsieg, ossia delle « vittorie lampo, » contro la Polonia, l’Olanda, il Belgio e – in maniera altamente spettacolare – contro la Francia. Quando, nella primavera del 1941, la Germania nazista si sentì pronta ad attaccare l’Unione Sovietica, tutti – non solo Hitler e i suoi generali, ma anche gli stati maggiori degli eserciti di Londra e Washington si aspettavano che uno scenario simile si ripetesse : si pensava che l’Armata Rossa sarebbe stata liquidata dalla Wehrmacht massimo nel giro di due mesi. Alla vigilia dell’attacco, Hitler si sentiva assolutamente fiducioso : si riporta che « gli piaceva immaginare che il più grande trionfo della sua vita era ormai imminente. »

Dall’Ostkrieg, il Blitzkrieg nell’est, Hitler e i suoi generali si attendevano molto di più che dalle loro precedenti campagne di guerre-lampo. Le riserve tedesche di carburante e gomma s’erano già assottigliate dopo che Stukas e Panzer, assetati di gasolio, avevano portato morte e distruzione in Polonia e nell’Europa occidentale. Nella primavera del 1941, quello che rimaneva di carburante, gomme e ricambi era sufficiente a condurre una guerra motorizzata della durata non superiore ad un paio di mesi. Queste carenze non potevano essere compensate dalle importazioni dagli Stati Uniti, tuttora neutrali, che pur continuavano ad arrivare, soprattutto attraverso la Spagna, mentre in ritorno delle limitate forniture di petrolio sovietico, la Germania doveva a sua volta consegnare prodotti industriali di alta qualità e moderna tecnologia militare, che i sovietici usavano per rinforzare le loro difese in preparazione di un attacco tedesco che si aspettavano presto o tardi sarebbe arrivato. La Germania nazista decise di risolvere questo problema di scarsità che l’affliggeva attaccando l’Unione Sovietica, benchè l’ostinata Gran Bretagna non fosse stata ancora sconfitta : la « vittoria-lampo » che fiduciosamente ci si attendeva si materializzasse con rapidità in oriente avrebbe consegnato alla Germania i ricchi campi petroliferi del Caucaso, dove i Panzer e gli Stukas, assetati di gasolio, sarebbero stati in futuro in grado di riempire i loro serbatoi fino all’orlo ogni qualvolta l’avessero voluto. La Germania sarebbe stata allora il vero insuperabile über-Reich, in grado di vincere qualsiasi guerra, anche protratta a lungo, contro ogni antagonista. Questo era il piano, nome in codice « Barbarossa », e la sua messa in atto iniziò il 22 giugno 1941. Le cose tuttavia non andarono come i loro architetti di Berlino si erano aspettati.

Benchè, in un primo momento l’Armata Rossa avesse preso una terribile batosta, tuttavia non si era preparata ammassando le truppe ai confini, ma aveva piuttosto optato per una difesa in profondità. Ritirandosi più o meno in buon ordine, era riuscita ad evitare la distruzione del suo esercito in uno o l’altro dei tipi di grandi battaglie d’accerchiamento che Hitler e i suoi generali avevano sognato. L’avanzata tedesca ora continuava, ma sempre più a rilento e al costo di grandi perdite. Per la fine di settembre, Mosca era ancora lontana e soprattutto lontanissimi erano i campi petroliferi del Caucaso, vero oggetto dei desideri germanici. E presto il fango, la neve e il freddo dell’autunno e del primo inverno furono lì a creare nuove difficoltà per truppe che mai si erano aspettate di dover combattere in quelle condizioni. Nel frattempo, l’Armata Rossa si era riavuta dai colpi ricevuti nella prima fase dell’offensiva tedesca e il 5 dicembre 1941 aveva lanciato una devastante controffensiva di fronte a Mosca. Le forze naziste furono ricacciate indietro e dovettero assumere posizioni difensive nelle quali riuscirono a superare l’inverno dopo che l’attacco sovietico si esaurì. La sera di quel fatale 5 dicembre 1941, i generali dell’alto comando della Wehrmacht riferirono ad Hitler che, dato il fallimento della strategia del Blitzkrieg, la Germania non poteva più sperare di vincere la guerra.

Avanzate tedesche nella

Operazione Blu : dal 7 maggio 1942 al 18 novembre 1942

Giallo : fino al 7 luglio 1942

Arancione : fino al 22 luglio 1942

Violetto : fino al 1 agosto del 1942

Verde : fino al 18 novembre del 1942

Fonte : CC BY-SA 3.0

La Battaglia di Mosca annunciò il fallimento della strategia della guerra-lampo contro l’Unione Sovietica. Un Blitzsieg, una vittoria-lampo, sul fronte orientale era ritenuta il segno che una sconfitta tedesca nella guerra sarebbe stata ormai impossibile e, molto verosimilmente, ciò era vero. É probabilmente corretto dire che se la Germania nazista avesse sconfitto l’Unione Sovietica nel 1941, sarebbe ancor oggi la potenza egemone in Europa e forse nel Medio Oriente e nel Nord Africa. Invece, di fronte a Mosca, nel dicembre 1941, la Germania nazista subì la sconfitta che rese una vittoria complessiva della Germania impossibile, non solo la vittoria contro l’Unione Sovietica, ma anche la vittoria contro la Gran Bretagna e la vittoria nella guerra in generale.

Si deve osservare che, a questo punto, – pochi giorni prima di Pearl Harbor – gli Stati Uniti non erano ancora stati coinvolti nella guerra contro la Germania. In effetti, gli Usa entrarono in guerra contro Berlino proprio a seguito della Battaglia di Mosca. Quando, pochi giorni dopo avere ricevuto le cattive notizie dalla Russia, il Führer apprese dell’attacco giapponese del 7 dicembre a Pearl Harbor e della successiva dichiarazione di guerra degli Usa al Giappone (ma non alla Germania), dichiarò egli stesso – l’11 dicembre – guerra all’America. La sua alleanza con il Giappone non lo obbligava a questo, diversamente da quanto sostengono alcuni storici, dato che il paese del Sole Nascente era stato non l’oggetto, ma il soggetto di una guerra d’aggressione, tuttavia con questo spettacolare gesto di solidarietà con il partner giapponese Hitler sperava di indurlo a dichiarare guerra al suo mortale nemico, l’Unione Sovietica. In questo caso, l’Armata Rossa avrebbe dovuto combattere su due fronti, cosa che avrebbe fatto risuscitare le speranze tedesche di vincere la guerra sul fronte orientale. Il Giappone, tuttavia, non abboccò all’amo e la Gemania nazista si ritrovò con un altro formidabile nemico, sebbene dovesse passare molto tempo prima che le truppe americane fossero impegnate in veri combattimenti con l’esercito nazista.

La Battaglia di Mosca fu sicuramente il punto di svolta della Seconda Guerra mondiale, ma oltre ad Hitler e ai suoi generali, quasi nessuno sapeva che a partire da allora il destino della Germania era segnato e che avrebbe perso la guerra, benchè – va detto – in tempi lunghi. La pubblica opinione non era consapevole di questo, né in Germania né nei paesi sotto occupazione tedesca né in Gran Bretagna e neppure negli Usa. Sembrava che si trattasse di una temporanea battuta d’arresto della Wehrmacht, dovuta presumibilmente – secondo la propaganda nazista – ad un arrivo imprevedibilmente precoce dell’inverno. L’esercito tedesco, comunque, era già entrato in profondità in territorio sovietico ed era in attesa di riprendere l’offensiva nel 1942, come in effetti avvenne. Oltre che lo stesso Hitler e i soci a lui più vicini, sia militari che politici, c’erano però anche altri osservatori bene informati che, alla fine del 1941 e in qualche caso anche prima, sapevano che il destino della Germania era ormai di perdere la guerra, anche se per qualche ragione non divulgarono l’informazione. Tra di loro un piccolo gruppo di generali del regime collaborazionista di Vichy, il servizio segreto svizzero e anche il Vaticano.

Nella primavera del 1942, Hitler raccolse tutte le forze disponibili per un’offensiva – nome in codice « Operazione Blu » (Unternehmen Blau) – in direzione dei campi petroliferi del Caucaso. Si era convinto di avere ancora una possibilità di vincere la guerra, ma solo « se si fosse impadronito del petrolio di Maikop e Grozny. » L’elemento sorpresa era ormai del tutto sfumato e i sovietici disponevano tuttora di grandi contingenti di uomini, petrolio e altre risorse. La Wehrmacht, d’altro canto, non era in grado di compensare le grosse perdite che aveva subito nel 1941 nella sua « crociata » contro l’Unione Sovietica : 6.000 aeroplani, più di 3.200 carri armati e mezzi corazzati, oltre a 900.000 uomini che erano stati uccisi, feriti o dispersi, all’incirca un terzo della potenza militare tedesca. Le forze disponibili per un’avanzata verso le zone petrolifere del Caucaso erano estremamente limitate. In quelle circostanze è del tutto comprensibile che nel 1942 i tedeschi cercassero di fare tutto quanto era loro possibile ma, inevitabilmente, dopo un po’ la loro offensiva si sgonfiò e nel settembre di quell’anno le loro linee debolmente presidiate si erano allungate fino a misurare molte centinaia di chilometri e pertanto erano diventate un obbiettivo perfetto per un contrattacco sovietico. Questo è il contesto nel quale un’intera armata germanica venne imbottigliata e alla fine distrutta a Stalingrado, in una titanica battaglia che iniziò nell’autunno del 1942 e terminò agli inizi di febbraio del 1943. Dopo questa sensazionale vittoria dell’Armata Rossa, l’ineluttabilità della sconfitta tedesca nella Seconda Guerra mondiale divenne ovvia a tutti e questo, combinato con le perdite senza precedenti subite da entrambi i contendenti, è quello che portò molti storici a dire che questa battaglia fu il vero punto di svolta della guerra.

I sovietici si preparano a scongiurare un assalto tedesco nella periferia di Stalingrado (Fonte: Wikimedia Commons)

In ogni caso, l’impatto della Battaglia di Stalingrado fu enorme. In Germania, l’opinione pubblica fu d’ora in avanti dolorosamente consapevole che il paese si stava avviando verso un’ignominiosa sconfitta e innumerevoli persone che avevano in precedenza sostenuto il regime nazista ora ne divennero oppositori. Molti, se non la maggior parte dei capi civili e militari implicati nell’attentato alla vita di Hitler nel luglio 1944, ad esempio, glorificati oggi come eroi e martiri della « resistenza anti-nazista tedesca », come Stauffenberg e Goerdeler, possono essere stati dei coraggiosi, ma avevano entusiasticamente sostenuto Hitler nel momento dei suoi trionfi, ossia, prima di Stalingrado. Se, dopo Stalingrado, volevano sbarazzarsi di Hitler, era perchè temevano che li avrebbe trascinati, assieme a lui, alla rovina. La consapevolezza del significato della sconfitta tedesca sulle rive del Volga demoralizzò allo stesso modo gli alleati della Germania nazista e li spinse alla ricerca di un qualche modo per uscire dalla guerra. Di contro, la notizia di Stalingrado diede una formidabile spinta positiva al morale dei nemici della Germania, dovunque si trovassero. Dopo i molti anni di buio, quando sembrava che la Germania nazista avrebbe dominato per sempre l’Europa, i combattenti della resistenza in Francia e dovunque videro finalmente la luce in fondo al tunnel e le armi vennero imbracciate anche dai molti che avevano scelto atteggiamenti di passività prima della buona nuova giunta da Stalingrado. In Francia, in particolare, il nome di Stalingrado divenne uno dei gridi di battaglia della resistenza.

Dopo la vittoria dell’Armata Rossa a Stalingrado, la Germania nazista e i suoi alleati dovettero confrontarsi con l’inevitabilità della sconfitta, mentre la Francia e tutti gli altri paesi sotto occupazione tedesca potevano finalmente puntare alla loro liberazione. La prospettiva di una Germania sconfitta e della Francia e del resto dell’Europa liberata dall’Armata Rossa fece, tuttavia, risuonare molto forte i campanelli d’allarme attivi nelle stanze del potere di Londra e Washington. I leader britannici e americani eran stati ben lieti di rimanere a bordo campo mentre nazisti e sovietici erano avvinghiati in una lotta mortale sul fronte orientale. Con l’Armata Rossa a fornire la carne da cannone necessaria a sconfiggere la Germania, gli Alleati occidentali rendevano minime le loro perdite e allestivano la loro forza in modo da essere in grado di intervenire in modo decisivo al momento giusto, quando il nemico nazista e il poco amato alleato sovietico sarebbero stati entrambi esausti. Con la Gran Bretagna al loro fianco, gli Usa sarebbero stati allora in grado di svolgere il ruolo guida nel campo dei vincitori e dettare i termini della pace ai sovietici come pure ai tedeschi. Fu per questa ragione che, nel 1942, Washington e Londra rifiutarono di aprire un « secondo fronte » e di far sbarcare le loro truppe in Francia. La scelta degli anglosassoni fu a favore di una « strategia meridionale » con l’invio, nel novembre di quell’anno, di un’armata nel Nord Africa ad occupare le colonie francesi. (Alcuni dei precedentemente citati generali di Vichy erano all’epoca nel Nord Africa e si giovavano di quell’opportunità per disertare dal regime di Pétain, che sapevano destinato alla sconfitta, e per unirsi alle forze della Francia Libera del generale De Gaulle.)

L’esito della Battaglia di Stalingrado provocò un cambiamento drammatico della situazione. Da un punto di vista puramente militare, Stalingrado fu una manna per gli Alleati occidentali in quanto questa sconfitta aveva pesantemente alterato la macchina bellica del nemico nazista anche a loro vantaggio. Roosevelt e Churchill, tuttavia, erano tutt’altro che lieti del fatto che l’Armata Rossa stava lentamente, ma inarrestabilmente spianandosi una propria via verso Berlino e che forse sarebbe arrivata anche più ad ovest e, inoltre, che l’Unione Sovietica – e il suo sistema socio-economico socialista – ora godeva di enorme popolarità tra i patrioti in tutti i paesi occupati. (Di contro, gli « anglo-sassoni » non godevano di una tale approvazione, soprattutto in paesi come la Francia, in parte per il loro magro contributo alla lotta contro il nazismo e in parte perché le loro incursioni aeree sulle città francesi e degli altri paesi sotto occupazione provocavano molte vittime civili. In questo senso, era poco fruttuoso anche che Washington avesse mantenuto a lungo relazioni diplomatiche con il governo del collaborazionista Pétain e che fosse nota l’operazione di « riciclaggio » che conduceva nei riguardi dei pétainisti nel Nord Africa.) « Divenne allora imperativo per la strategia anglo-americana sbarcare truppe in Francia, liberare l’Europa occidentale ed entrare in Germania per mantenere la maggior parte possibile del paese fuori dalle mani [sovietiche], » come hanno scritto i due storici americani Peter N. Carroll e David W. Noble. Era, comunque, troppo tardi per pianificare un’operazione tanto complessa per il 1943, così si rimandò al 1944.

Lo sbarco in Normandia nel giugno del 1944 non costituì il punto di svolta della Seconda Guerra mondiale. La Germania nazista aveva già ricevuto colpi decisivi nelle battaglie di Mosca e Stalingrado e di nuovo, nell’estate del 1943, era stata pesantemente battuta a Kursk. E mentre ufficialmente si pretendeva che gli sbarchi servissero a liberare la Francia, la loro funzione « latente », non detta ma vera, era prevenire la liberazione da parte della sola Unione Sovietica dell’Europa, compresa la sua parte occidentale fino alla Manica – una prospettiva che si era affacciata fin dalla vittoria dell’Armata Rossa sulle sponde del Volga. Liberare la Francia – o occupandola, esattamente come i tedeschi avevano occupato il paese, come si era espresso in un’occasione il generale De Gaulle parlando gli sbarchi in Normandia  – significava anche impedire ai leader della resistenza, la maggior parte dei quali nutriva grande simpatia e ammirazione per i sovietici, di giocare un ruolo importante nella ricostruzione del paese. Si temeva, ad esempio, che questi patrioti potessero procedere a mettere in atto le radicali riforme socio-economiche proposte nella « Carta della Resistenza [francese], » che comprendevano la nazionalizzazione delle grandi industrie e delle banche che avevano collaborato con i nazisti. (Terribili avvertimenti volti a scongiurare tali possibilità pervenivano regolarmente dalla principale spia americana con sede in Svizzera, Allen Dulles, che in seguito sarebbe diventato capo della CIA.) Per scongiurare un tale scenario, che confliggeva con i propri piani per fare posto ad un capitalismo senza freni nella Francia e nell’Europa post-bellica in generale, gli americani avrebbero dovuto affidarsi al leader, popolare ma conservatore, della Resistenza francese, Charles De Gaulle.

Gli anglo-americani, in realtà, lo detestavano, ma alla fine si accordarono per una sua salita al potere, orchestrando, nel momento della liberazione di Parigi, una sua trionfante e molto pubblicizzata sfilata lungo il gran viale dei Campi Elisei. De Gaulle si sarebbe dimostrato un personaggio molto difficile da trattare, anche se consentì al governo di mettere in atto una qualche misura suggerita dagli elementi radicali della Resistenza. Senza di lui, tuttavia, le riforme molto più incisive previste dalla Carta della Resistenza avrebbero potuto essere attuate ed è estremamente difficile che, in quel caso, gli Stati Uniti sarebbero riusciti ad integrare la Francia nell’alleanza anti-sovietica che allestirono in Europa nel contesto della Guerra Fredda.

Di quel breve momento nella storia della Francia, quando molti, se non la maggior parte, dei suoi abitanti erano ancora consapevoli che la liberazione del loro paese era dovuta in larghissima parte agli sforzi e ai sacrifici dell’Unione Sovietica e, in stridente contrasto con la situazione attuale, nutrivano grandissima riconoscenza nei confronti dei russi e degli altri popoli sovietici, i turisti di Parigi sono tuttora fatti partecipi, dal nome – che risale al luglio 1945 – di una delle più grandi piazze della città : Place de la Bataille-de-Stalingrad, « Piazza della Battaglia di Stalingrado ».

Jacques R. Pauwels

Articolo in inglese :

75 Years Ago, the Battle of Stalingrad

traduzione di Silvio Calzavarini

 


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Articles by: Dr. Jacques R. Pauwels

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