No-fly zone ma non solo: via alla nuova guerra umanitaria?

Il voto al Palazzo di vetro era annunciato per le 11 di ieri sera, troppo tardi per noi. Ma tutto, nel pomeriggio, lasciava credere che la risoluzione presentata in Consiglio di sicurezza da Francia, Inghilterra e Libano per l’imposizione di una no-fly zone sulla Libia sarebbe passata. E che, ha detto il ministro degli esteri francese Alain Juppé, le operazioni militari potrebbero cominciare «entro poche ore». Anche la Nato, stando al suo segretario Rasmussen, si è detto pronta e convinta che «non è troppo tardi per un intervento in Libia», necessario perché «una vittoria di Gheddafi dimostrerebbe che la violenza paga».

Ieri pomeriggio (ora italiana) l’ambasciatore francese all’Onu, Gerard Araud, si mostrava molto ottimista e sicuro che la risoluzione sarebbe passato in Consiglio di sicurezza, anche se non all’unanimità, «ci saranno delle sorprese». Rumors al Palazzo di vetro newyorkese spifferavano che Russia e Cina, che hanno potere di veto e si erano finora dette contrario a qualsiasi intervento militare contro la Libia, anziché usare il veto avrebbero potuto astenersi consentendo così alla risoluzione, nel caso ottenga almeno 9 voti sui 15, di passare. Altri affermavano che l’India si sarebbe astenuta o avrebbe votato no. Non era ancora chiara la posizione di Portogallo e Germania, che negli ultimi giorni hanno sottolineato di preferire un inasprimento delle sanzioni piuttosto che un’operazione militare. Da tutti tutti gli altri paesi del Consiglio ci si aspettavava il via libera e almeno 10 sì.

Poi via, accendere i motori e partire per la Libia. E per un’altra bella «guerra umanitaria» dell’Occidente, dopo Iraq (due volte), Serbia, Somalia, Afghanistan.

Perché è inutile nascondersi dietro le foglie di fico umanitarie. Non solo di un’azione di interdizione si tratta – la no-fly zone -, ma di una guerra vera, e dichiarata. Infatti, secondo la bozza di risoluzione letta dal ministro degli esteri britannico William Hague, il testo impone «l’immediato cessate il fuoco, la fine completa della violenza, la proibizione dui tutti i voli nello spazio aereo libico ad eccezione dei voli umanitari», e il concomitante divieto per gli aerei libici di decollare, atterrare o sorvolare il territorio di qualsiasi stato membro dell’Onu (quindi in pratica del mondo). Ma non solo. La bozza di risoluzione prevedeva anche, ha ricordato Hague, l’adozione di «tutte le misure necessarie eccetto una forza d’occupazione», naturalmente con il nobile obiettivo di «proteggere i civili».

Se Juppé e Hague, Sarkozy e Cameron, Francia e Inghilterra, sono i più fervorosi nel sostegno a un’azione militare contro la Libia (di nuovo insieme come nel ’56 quando intervennero insieme con Israele contro l’Egitto di Nasser), gli sviluppi delle ultime ore sono stati determinati da quella che l’agenzia Reuter definisce «il rapido cambio di tono» degli Usa. Finora sembrava che l’amministrazione statunitense fosse molto prudente e poco propensa a una nuova avventura militare in un’area così esplosiva come il Nord-Africa arabo-islamico (e petrolifero), specialmente in una fase in cui l’America è già impegnata pesantemente (e con poche prospettive di vittoria o di disimpegno a breve termine) in teatri di guerra aperta quali Afghanistan e Iraq e, ora, in un teatro di immensa catastrofe naturale quale il Giappone. L’amministrazione, si diceva, era divisa con Obama e il Pentagono con il suo ministro Robert Gates riluttanti all’azione militare diretta da un lato e dall’altro il Dipartimento di stato con il suo capo Hullary Clinton (appoggiata anche dal marito Bill) favorevoli all’intervento. Alla fine, a quanto sembra, hanno prevalso i coniugi Clinton. E ieri il sottosegretario di stato William Burns ha detto che gli Usa vogliono una risoluzione Onu che consenta non solo la no-fly zone ma anche raid aerei contro «i tank e l’artiglieri pesante libici e l’uso «di tutti i metodi a eccezione di una forza d’occupazione sul terreno» («no boots on the ground», ha detto Burns). L’obiettivo è proteggere i civili libici dalla violenza di Gheddafi (e dalle probabili «atrocità» che secondo Human Rughts Watch seguirebbero alla riconquista anche di Bengasi) e, come ha precisato il portavoce della Casa bianca Jay Carey, «muoversi verso una situazione in cui Gheddafi non sia più al potere». In soldoni verso uno dei tanti regime changes in cui si sono impegnati gli Usa, sia quelli di Bush ma anche quelli di Obama (qualcuno si ricorda del marginale Honduras?).

Una delle condizioni poste da Washington per la «rapida svolta» era il coinvolgimento diretto «degli arabi» nella guerra umanitaria anti-Gheddafi. Che non pensassero di lavarsene le mani con la richiesta di una no-fly zone venuta sia dalla Lega araba, sia dal Consiglio di cooperazione del Golfo. Detto fatto. Ieri è venuta la conferma che «forse» almeno Qatar e Emirati arabi uniti, e «forse» anche la «democratica» Giordania di re Abdallah sono pronti a partecipare consentendo basi e sorvolo dello spazio aereo (secco no invece dell’Egitto, nonostante l’ammonimento della signora Clinton, da Tunisi dove si trova in visita, che la permanenza di Gheddafi al potere, «causerebbe problemi per il Cairo e Tunisi e chiunque altro»).

Nessun problema se i fighters umanitari arabi sono gli stessi che hanno chiesto giorni fa l’aiuto fraterno delle truppe saudite e dei poliziotti degli Emirati per stroncare nel sangue la «pacifica protesta» in Bahrein. C’è intervento umanitario e intervento umanitario.

http://abbonati.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/18-Marzo-2011/art40.php3


Articles by: Maurizio Matteuzzi

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