La «spending review» della Nato

L'arte de la guerra

Mentre nella «spending review» il governo promette una riduzione di 300-500 milioni nel bilancio della difesa, l’Italia sta assumendo nella Nato crescenti impegni che portano a un inevitabile aumento della spesa militare, diretta e indiretta.

La Nato non conosce crisi. Giunta al suo 65° anniversario dopo una vita agiata in cui ha speso decine di migliaia di miliardi di dollari in forze armate, armi e guerre, si sta costruendo un nuovo quartier generale a Bruxelles. Il costo previsto, 460 milioni di euro, è quasi triplicato salendo a 1,3 miliardi e continua a crescere. La Nato non bada però a spese per dare al suo staff centrale di 4mila funzionari una lussuosa sede, dotata delle più avanzate tecnologie.

Lo stesso è stato fatto in Italia, trasferendo poco più di un anno fa il Comando interforze (Jfc Naples) da Bagnoli a Lago Patria, dove con una spesa di circa 200 milioni di euro è stata costruita una nuova sede per uno staff di 2500 militari e civili. Agli ordini dell’ammiraglio statunitense Bruce Clingan – allo stesso tempo comandante delle Forze navali Usa in Europa, delle Forze navali Usa per l’Africa e delle Forze congiunte alleate – a sua volta agli ordini del Comandante supremo alleato in Europa, Philip Breedlove, un generale statunitense nominato come di regola dal presidente degli Stati uniti.

Tali spese sono solo la punta dell’iceberg di un colossale esborso di denaro pubblico, pagato dai cittadini dei paesi dell’Alleanza. Vi è anzitutto la spesa iscritta nei bilanci della difesa dei 28 stati membri che, secondo i dati Nato del febbraio 2014, supera complessivamente i 1000 miliardi di dollari annui, per oltre il 70% (735 miliardi) spesi dagli Stati uniti. La spesa militare Nato, equivalente a circa il 60% di quella mondiale, è aumentata in termini reali (al netto dell’inflazione) di oltre il 40% dal 2000 ad oggi.

La necessità di mantenere un’alta spesa militare è imposta all’Italia non da reali esigenze difensive, ma dal fatto di appartenere a un’alleanza che, superato il patto atlantico, ha demolito con la guerra la Jugoslavia e la Libia, ha occupato l’Afghanistan, prepara altre guerre in Medio Oriente e oltre, e si è estesa sempre più ad est provocando un nuovo confronto con la Russia. Sotto pressione degli Stati uniti, la cui spesa militare è pari al 4,5% del prodotto interno lordo, gli alleati si sono impegnati nel 2006 a destinare al bilancio della difesa come minimo il 2% del loro pil. Finora, oltre agli Usa, lo hanno fatto solo Gran Bretagna, Grecia ed Estonia.

L’impegno dell’Italia a portare la spesa militare al 2% del pil è stato sottoscritto nel 2006 dal governo Prodi. Secondo i dati Nato, essa ammonta oggi a 20,6 miliardi di euro annui, equivalenti a oltre 56 milioni di euro al giorno. Tale cifra, si precisa nel budget, non comprende però diverse altre voci. In realtà, calcola il Sipri, la spesa militare italiana (al decimo posto su scala mondiale) ammonta a circa 26 miliardi di euro annui, pari a 70 milioni al giorno. Adottando il principio del 2%, questi salirebbero a oltre 100 milioni al giorno.

Agli oltre 1000 miliardi di dollari annui iscritti nei 28 bilanci della difesa, si aggiungono i «contributi» che gli alleati versano per il «funzionamento della Nato e lo sviluppo delle sue attività». Si tratta per la maggior parte di «contributi indiretti», tipo le spese per «le operazioni e missioni a guida Nato». Quindi i molti milioni di euro spesi per far partecipare le forze armate italiane alle operazioni belliche Nato nei Balcani, in Libia e Afghanistan costituiscono un «contributo indiretto» al budget dell’Alleanza.

Vi sono poi i «contributi diretti», distribuiti in tre distinti bilanci. Quello «civile», che con fondi forniti dai ministeri degli esteri copre le spese per lo staff dei quartieri generali.  Quello «militare», composto da oltre 50 budget separati, che copre i costi operativi e di mantenimento della struttura militare internazionale. Quello di «investimento per la sicurezza», che serve a finanziare la costruzione dei quartieri generali (a Bruxelles e altrove), i sistemi satellitari di comunicazione e intelligence, la creazione di piste e approdi e la fornitura di carburante per le forze impegnate in operazioni belliche.

Circa il 22% dei «contributi diretti» viene fornito dagli Stati uniti, il 14% dalla Germania, l’11% da Gran Bretagna e Francia. L’Italia vi contribuisce per circa l’8,7%: quota non trascurabile, nell’ordine di centinaia di milioni di euro annui.  Vi sono diverse altre voci nascoste nelle pieghe dei bilanci. Ad esempio l’Italia ha partecipato alla spesa per il nuovo quartier generale di Lago Patria sia con la quota parte del costo di costruzione, sia con il «fondo per le aree sottoutilizzate» e con uno erogato dalla Provincia, per un ammontare stimato in circa 25 milioni di euro (mentre mancano i soldi per ricostruire L’Aquila). Top secret resta l’attuale contributo italiano al mantenimento delle basi Usa in Italia, quantificato l’ultima volta nel 2002 nell’ordine del 41% per l’ammontare di 366 milioni di dollari annui sotto varie forme: affitti gratuiti, riduzioni fiscali, costi ridotti delle forniture energetiche e altri servizi. Sicuramente oggi tale cifra è di gran lunga superiore.

Si continua così a gettare in un pozzo senza fondo enormi quantità di denaro pubblico, che sarebbero essenziali per interventi a favore dell’occupazione, dei servizi sociali, delle zone terremotate. E i tagli di 4,7-5 miliardi, previsti per il 2014, potrebbero essere evitati tagliando quanto si spende in poco più di due mesi nel militare.


Articles by: Manlio Dinucci

About the author:

Manlio Dinucci est géographe et journaliste. Il a une chronique hebdomadaire “L’art de la guerre” au quotidien italien il manifesto. Parmi ses derniers livres: Geocommunity (en trois tomes) Ed. Zanichelli 2013; Geolaboratorio, Ed. Zanichelli 2014;Se dici guerra…, Ed. Kappa Vu 2014.

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